venerdì 27 novembre 2015

Nei giardini al centro di Roma messo a dimora il baniano simbolico che abbiamo donato alla città

Il baniano [dal port. banian e dall’ingl banyan, derivati dalla voce hindi baniyā], è un imponente e curioso albero sempreverde (Ficus bengalensis) dalle belle foglie lucide, vagamente simili a quelle delle piccole piante del genere Ficus che in Europa coltiviamo negli appartamenti. E’ originario dell’India, dove è coltivato sia per la sua ombra, potendo riparare centinaia di pellegrini, sia come albero sacro. Si racconta, infatti, che raccolto in meditazione ai suoi piedi Buddha abbia raggiunto l’illuminazione.

L’albero, col clima giusto, può arrivare a un’altezza fino a 30 metri. Ha un tronco enorme, ma la sua caratteristica più appariscente sono curiose radici che scendono numerose e diritte dai rami fino a penetrare nel terreno, come vere e proprie esili colonne, così alimentando ma anche sorreggendo la pesante e amplissima chioma, che può giungere a coprire anche varie centinaia di metri quadrati. I nativi sono convinti che i semi racchiusi nei suoi frutti germogliano più facilmente se dispersi sul terreno dopo essere stati mangiati dagli uccelli.

Antichissimo, sollevò la curiosità degli antichi viaggiatori e soldati greci e romani. Un esemplare gigantesco di baniano lungo le sponde del fiume Narmada, nell’India centrale, fu notato da Nearco, capo della flotta di Alessandro Magno durante la spedizione in India [v. in questo stesso blog la ricostruzione completa del drammatico incontro del re macedone con i saggi filosofi gimnosofisti], e descritto poi nelle sue memorie.

Per i devoti si tratta d’un vero e proprio “albero tempio”, sia perché presente spesso nei recinti dei grandi luoghi di culto per ristorare con la sua ombra i pellegrini, sia perché sotto le sue ampie fronde si innalzano piccoli templi per la celebrazione di riti e cerimonie (v. antica stampa).

Ma il nome, stranamente, lo deve all’antica usanza di esporre e vendere le loro mercanzie sotto la sua chioma da parte dei baniani, antichissima casta dei mercanti indiani specializzati negli scambi di spezie, tè e tessuti con l’Arabia e l’Africa orientale, dove erano attivi già prima dell’arrivo dei Portoghesi nell’Oceano Indiano (sec. XV), quindi verso il 1400 dC.

Ebbene, un bell’albero giovane di baniano, raro esemplare in Europa, è stato donato alla città di Roma dalla nostra Associazione Bhaktivedanta Cultural and Educationl Library, che ha sede presso i locali del Bibliothè, in occasione dell’inizio dei festeggiamenti a Roma del 50° anniversario della fondazione della International  Society for Krishna Consciousness  (ISKCON) avvenuta a New York nel 1966) per opera del fondatore-acarya A.C. Bhaktivedanta Swami Prabhupada.

L’albero è stato messo a dimora, col suo carico simbolico, nel giardino pubblico più centrale di Roma, in piazza Vittorio Emanuele II (nota come “piazza Vittorio”), in una apposita ampia area concessa dal Servizio Giardini della Capitale (ringraziamo il Sovrintendente ai Giardini Alessandro Mori). La suggestiva cerimonia si è svolta mercoledì 25 novembre 2015 (giornata favorevole, perché di luna piena) nel primo pomeriggio, a cura della Lega degli alberi (Massimo Livadiotti, coordinatore dell’evento, e Cristiana Pristy), del “Comitato di Piazza Vittorio partecipata”, e con la presenza attiva per la prasada rituale  e canti devozionali di Enzo Barchi e Trina Boyer del Bibliothè. Canti devozionali e un simbolico rinfresco con tè auyrvedico hanno allietato la cerimonia. Ha preso la parola anche Massimiliano A. Polichetti, nuovo direttore del Museo Nazionale d’Arte Orientale “Giuseppe Tucci” di via Merulana a Roma.

Piantare un baniano, oltretutto uno degli alberi simbolo dell’India, in Italia, al centro della città di Roma, e per di più in occasione del cinquantennale della fondazione della Società per la Coscienza di Krsna, avvenuta negli Stati Uniti, è da interpretarsi come un atto altamente simbolico del legame tra Est e Ovest, capace di rafforzare attraverso i tre continenti la comune origine culturale e la sensibilità che lega Stati Uniti, Italia e India.

AGGIORNATO IL 28 NOVEMBRE 2015

lunedì 16 novembre 2015

Le spezie. Squisiti sapori e aromi per ogni cibo e per la salute. Al Bibliothè l’Ayurveda a tavola.

La cucina vegetariana ayurvedica indiana, (Ayurveda in sanscrito: आयुर्वेद Āyurveda , ‘conoscenza della vita’) è ormai famosa nel mondo, e la si può ritrovare proposta ogni giorno nel menù tipicamente ayurvedico di Bibliothè (via Celsa, 5, Roma). Caratterizzata da ricette che si rifanno agli insegnamenti della maestra Yamuna Devi, le particolari proprietà della cucina ayurvedica proposte da Bibliothè, sono legate ad un utilizzo espero delle spezie, i cui effetti benefici sono subito percepibili, tanto da incuriosire sempre chi per la prima volta gusta uno di questi piatti o sorseggia una tisana ayurvedica in modo totalmente ignaro della storia di queste ricette.
Il cibo però non è soltanto legato al nutrimento di chi lo prepara, ma diventa un dono da offrire da un punto di vista religioso, dunque nell’induismo possiamo scoprire che per i seguaci di Krishna diviene un rituale che inizia già con la sua preparazione, attenta ad ogni dettaglio. Il rituale che comprende l’atto del cucinare, è ricco di significati, e termina solo dopo che Krishna ha consumato il suo pasto, che è offertogli per primo.
Andremo a vedere qui di seguito più da vicino il valore delle spezie nella cucina ayurvedica, e successivamente a quest’introduzione avremo un approfondimento di cinque spezie fondamentali nei rimedi ayurvedici. Rimando i più curiosi  o coloro volessero approfondire l’argomento ‘cibo in India’ da diversi punti di vista, alla sezione della biblioteca di Bibliothè, in cui sono conservati molti testi sull’argomento come  ad esempio ‘La Cucina degli Hare Krishna’, ‘Best Food from India’, ‘Spices and Condiments’, e che sono consultabili.
Nella cucina di Bibliothè come già accennato, ci si rifà soprattutto a cento ricette di Yamuna Devi, che sono state raccolte in un testo,  il secondo manuale di Bibliothè.  Il libro è in fse di realizzazione ed il titolo sarà “L’Arte della Cucina Vegetariana Ayurvedica”.  Questo manuale sarà presentato a dicembre con una conferenza a Bibliothè, di cui verranno forniti maggiori dettagli a breve sulla pagina facebook di Bibliothè.


BREVE STORIA DELLE SPEZIE

La fama delle spezie indiane è antica, e si narra[1] che le navi salpavano dalla Mesopotamia, dall’Egitto e l’Arabia alla volta dell’India per acquistare le pregiate spezie già prima dell’epoca cristiana; i mercanti greci come anche gli epicurei romani spendevano fortune per le preziose spezie indiane, e le guerre romano-partiche servirono anche per mantenere aperto il passaggio commerciale aperto verso l’India.
Sembra incredibile che le spezie oggi poco costose, rientrassero tra i lussi reali che spingevano i naviganti a rischiare le loro vite pur di ottenerli. Nel 1492 Cristoforo Colombo partì proprio per trovare una rotta verso le Indie, ma giunse invece in quello che venne definito il Nuovo Mondo; solo cinque anni più tardi quattro piccole navi salparono verso il sud, dal porto di Lisbona in Portogallo, e sotto il comando di Vasco Da Gama solcarono i mari alla volta di nuove rotte verso le terre delle spezie, l’Asia. Da Gama riuscì a creare una nuova rotta verso l’India passando intorno al continente africano, e se solo due delle navi riuscirono a tornare, il carico di spezie ottenuto venne considerato avere un valore che comunque superava di 60 volte il costo dell’intero viaggio.[2] 
Le spezie nell’epoca di Da Gama erano utili anche per sopperire alla scarsità di cibo che caratterizzava la vita in Europa, anche se il loro valore era molto elevato, considerando che ad esempio 16 once di zenzero valevano una pecora intera[3]. Il successo di Da Gama nel favorire i commerci con l’India, aumentò anche la pressione posta sul controllo del commercio delle spezie; a livello internazionale si stavano infatti intensificando sempre più guerre tra le varie potenze europee, volte ad assicurarsi il monopolio di queste rotte; rivalità e scontri che si sarebbero tradotte poi nelle politiche coloniali.
Ma perché le spezie sono così importanti nella cucina indiana?
L’India è nota come ‘la patria delle spezie’[4] e le spezie non sono soltanto importanti per quanto riguarda l’arte culinaria, ma sono oltremodo importanti per ciò che concerne l’economia del paese, che ottiene un’alta percentuale di guadagni proprio grazie al commercio internazionale delle spezie ( cfr. http://www.ibef.org/exports/spice-industry-indias.aspx ), che riguarda ambiti gastronomici, farmaceutici, parafarmaceutici, cosmetici e molti altri[5].
Per quanto riguarda l’utilizzo delle spezie nella cucina indiana, si tratta di un uso sapiente, legato a ricette tramandate anticamente, non solo per quanto riguarda il gusto del cibo, ma soprattutto per la funzione terapeutica che esse hanno a seconda di vari accostamenti.
Le spezie e le erbe sono infatti parte fondamentale delle pratiche mediche ayurvediche, in cui si impiegano accostamenti di radici, erbe, cortecce o semi a scopo medico. L’alimentazione è infatti strettamente connessa alle cure mediche, e mira ad ottenere un bilancio, tradotto più spesso nell’equilibrio tra i tre dosha ( o umori) Vata, Pitta e Kapha che si ricollegano a cinque elementi basilari: Aria, Etere, Terra, Acqua e Fuoco.
Nella dieta ayurvedica si distinguono sei sapori principali: dolce (riso, miele, pane, verdure…), agro (agrumi, bacche, alcohol, pomodoro…), salato (sale, salsa di soia…), pungente (pepe, aglio, cipolla, zenzero…), amaro (verdure a foglia verde, broccoli…) e astringente (lenticchie, mele verdi, pompelmo, thé…)[6] che sono da bilanciare in modo da poter mantenere i tre dosha equilibrati. Se si utilizza però uno di questi gruppi in modo eccessivo, si avranno degli squilibri, che porteranno a diverse patologie legate dunque agli alimenti, ed in modo molto più profondo ai dosha ad essi connessi. Quindi ad esempio un eccesso di alimenti astringenti possono aiutare a bilanciare un Kapha o Pitta squilibrato, ma sono da sconsigliare se si ha un eccesso di Vata, oppure al contrario elementi troppo pungenti  bilanciano Kapha ma irritano Pitta e Vata, o ancora un eccesso di cibi dolci può aiutare a bilanciare Vata e Pitta ma aggraverà il Kapha.
I cibi dunque che diminuiscono un dosha sono detti ‘pacificare’ quel dosha, mentre quelli che lo aumentano lo ‘aggravano’. I cibi dolci, amari e salati pacificano il Vata. Dolce, pungente e amaro diminuiscono il Pitta, mentre pungente, amaro e astringente pacificano il Kapha.
Esistono più di 80 spezie al mondo, e 50 sono coltivate in India[7], a livello internazionale non esiste una differenziazione tra il concetto di ‘spezia’ e ‘condimento’, quindi spesso ci si riferisce alle spezie con un immaginario un po’ diverso da quello che si può avere comunemente. Infatti viene generalmente definita spezia o condimento “qualsiasi prodotto vegetale, o mix di piante e verdure, utilizzato per aumentare l’aroma, il sapore e piccantezza o per condire un cibo”[8].
Nella cucina indiana le spezie si differenziano anche a seconda del modo in cui vanno impiegate ( a pizzichi come la noce moscata, il pepe, il peperoncino, lo zafferano…) oppure da dosare con il cucchiaino ( cannella, cumino, zenzero in polvere…)[9] e la loro quantità non è fissa.
Ci si può riferire alle spezie raggruppandole in modi diversi: si può infatti considerare la loro famiglia e quindi in base ad analogie botaniche, modo di coltivazione, importanza dal punto di vista di esportazione (maggiori e minori si riferisce a questa classificazione normalmente), o in parti o formati (es. semi, cortecce, radici, etc.).
Nei testi di cucina indiana viene spesso indicato come conservare od impiegare al meglio le spezie; ad esempio si consiglia di controllare bene le spezie da utilizzare intere per evitare che vengano erroneamente inglobati anche rametti o pietruzze nel pasto, andando a variare la componente del cibo, oppure si consiglia sempre di conservare le spezie in contenitori etichettati, ben chiusi e metallici, in luoghi freschi ed asciutti lontano dalla luce diretta del sole dividendo le quantità di uso giornaliero da tenere invece più a portata di mano, così da evitare di far rovinare il resto della spezia. Si consiglia di evitare di acquistare le spezie già in polvere in quanto perdono più velocemente il loro aroma, e  preferire quindi quelle intere (es. radici come lo zenzero) da macinare al momento dell’utilizzo (si noterà la differenza).
Per quanto sembri più comodo e facile, le miscele già pronte sono in realtà sconsigliate, e in India praticamente sconosciute[10]. Seguendo i consigli dei ricettari di cucina indiana (che a Bibliothè sono disponibili per la consultazione quotidianamente), scegliere di preparare una miscela di spezie di persona risulterà in un’operazione facile, che vi permetterà di gustare dei sapori più ricchi di aromi ed un cibo più salutare.
Alcune spezie alla base dei sapori contrastanti ed armoniosi della cucina ayurvedica, e ricchi di proprietà curative, sono  lo zenzero, la curcuma, il pepe nero, il coriandolo, la cannella . Qui di seguito cercheremo di avvicinarci un po’ di più ad esse.

(Per le descrizioni di seguito mi sono avvalsa delle informazioni avute dai sapienti cuochi di Bibliothè, integrandole con i testi che ho consultato e che sono  disponibili nella sezione biblioteca, o siti internet come www.mapi.com della Maharishi foundation ). 

Pepe nero
E’ considerato essere una spezia dalle grandi proprietà curative. Il preparato trikatu, che è un ingrediente molto importante nelle terapie ayurvediche,  si ottiene proprio mettendo insieme il pepe nero con il peperoncino e lo zenzero.  Ha proprietà depurative ed antiossidanti, ed aiuta a veicolare le proprietà e gli effetti benevoli delle altre piante in diverse parti del corpo. Aiuta ad ossigenare il cervello,  a regolare la digestione e la circolazione, stimola l’appetito, ed aiuta a mantenere le vie respiratorie sane, così come aiuta le articolazioni. Il pepe nero rientra tra i sapori pungenti, ed è ottimo per pacificare il Kapha, il Vata ed aumentare il Pitta.

Zenzero
Lo zenzero o ‘Ardraka’ in sanscrito, costituisce una delle principali spezie dell’India,  tra le più importanti ed antiche insieme al pepe e  la cannella. L’India continua ad essere il principale produttore di Zenzero al mondo[11], e lo zenzero indiano è considerato lo zenzero migliore al mondo[12].  In cucina è adoperato per il suo gusto piccante e allo stesso tempo penetrante; caratterizzato da una componente antisettica e pungente, è indispensabile nella preparazione di una serie di alimenti come il pane allo zenzero, o tisane. Lo zenzero nella medicina ayurvedica è impiegato per curare coliche e dispepsia. Mangiato in piccole quantità cura i dolori dello stomaco, mentre preparato in infuso con l’aggiunta di peperoncino e limone, risulta un ottimo rimedio per il raffreddore.

Curcuma
La Curcuma, in sanscrito ‘Haladi, ‘Harita’o ‘Haridra’,è un componente della famiglia dello zenzero (Curcuma longa); è un rizoma dal colore arancio scuro, è pressoché onnipresente nelle ricette indiane risultando infatti impiegata nei pasti quotidianamente  in ogni classe sociale indiana[13] per aggiungere calore e sapore acre a verdure, zuppe o anche solo per aggiungere colore ai piatti.  La polvere mantiene a lungo le proprietà coloranti, ma perde presto l’aroma.  Solo una piccola parte  della produzione totale indiana di curcuma viene adoperata nella medicina o nella cosmesi, occupando comunque un ruolo importante come ingrediente dei rimedi ayurvedici, soprattutto grazie alle sue proprietà anti-infiammatorie. Viene assunta (generalmente in polvere), per trattare diverse patologie legate a problemi dell’apparato digerente,  ma è anche un disintossicante, purificatore di sangue, aiuta l’organismo a rispondere in modo migliore agli allergeni, è un vermicida,  antisettico ed aiuta le difese immunitarie. E’ anche consigliata nei casi di diabete, e se inalato o assunto con acqua calda insieme all’omum (Trachyspermum ammi)  è un ottimo rimedio per la tosse ed il raffreddore.

Coriandolo
I semi di coriandolo, interi o macinati (dhania, sabut e pesa), sono molto profumati. E’ una delle tre spezie più importanti della cucina indiana, e stanno divenendo molto popolari anche in occidente[14].  E’ una spezia rinfrescante, ed aumenta i gusti astringenti e dolci. Nelle pratiche ayurvediche è impiegato per aiutare la digestione, favorisce all’organismo una risposta migliore agli allergeni, ed aiuta a purificare il sangue. Spesso combinato con altre spezie importanti nei rimedi ayurvedici, come la curcuma, il cumino, la paprika il cayenne o il finocchio. Il coriandolo fresco è impiegato come aroma essenziale, e non è molto facile da trovare per quanto sia invece estremamente semplice coltivarlo (avrà bisogno di un piccolo angolo del giardino, in cui potrete seminarlo, ed accudendolo tenendolo al riparo ed innaffiandolo ogni giorno, germoglierà in poco tempo -20 giorni circa- andranno colti gli steli lunghi circa 15 cm e prima che dia i semi).

Cannella
Insieme alla Cassia (Jangli Dalchini), la Cannella (Dalchini o Darchini) è una spezia molto popolare, ed usata comunemente nella dieta indiana. Il termine deriva dalla parola araba Dar-al-chini, che significa il ‘legno di Cina’. E  una delle prime spezie che vennero conosciute dall’uomo[15], e viene impiegata comunemente nei piatti indiani per aumentare od esaltare le proprietà delle altre erbe. E’ una spezia calda, ed esalta i sapori dolci, pungenti ed amari. E’ ottima per pacificare il Kapha, e per bilanciare il Vata. Chi avesse bisogno di bilanciare il Pitta può utilizzare anche la cannella, ma è sempre consigliabile adoperare in questo caso quantità piccole. Nelle terapie ayurvediche è adoperata per bilanciare la digestione ed aiutare lo stomaco. Bollito insieme allo zenzero ed al pepe nero, è un ottimo rimedio per il raffreddore. L’olio di cannella è impiegato per combattere il mal di testa e fortificare le giunture. Si combina bene con molte altre spezie, spesso impiegate nella cucina indiana, come ad esempio lo zenzero, il pepe nero, la paprika, lo zafferano, etc. CYNTHIA CALZOLARI

[1] Spices and Condiments
[2] Ibid.
[3] Ibid.
[4] ‘Spices and condiments’ – consultabile presso Bibliothè
[5] Ibid.
[6] www.chopra.com
[7] Spices and Condiments, ibid.
[8] Ibid.
[9]  Da ‘Spezie ed erbe’ – La cucina degli Hare Krishna (testo consultabile presso la sezione biblioteca di Bibliothè)
[10] Ibid.
[11] http://agriexchange.apeda.gov.in/Market%20Profile/one/GINGER.aspx
[12] Spices and condiments
[13] Ibid.
[14] Spezie ed erbe – la cucina degli Hare Krishna
[15] Ibid.

AGGIORNATO IL 16 NOVEMBRE 2015

mercoledì 22 ottobre 2014

Festa indiana di Diwali. Il Ficus donato dal Bhagavat Atheneum e la Cerimonia dell'Albero.

Il 23 ottobre è il primo giorno della festa di Diwali, ricorrenza nazionale per l'India. Con l'occasione il Bhagavat Atheneum, che ha sede presso il Bibliothè (nella persona di Enzo Barchi), si è fatto promotore insieme con Respiro Verde-Legalberi (l’artista Massimo Livadiotti, che ringraziamo per essere stato la vera anima della manifestazione) e altre associazioni della caratteristica Cerimonia dell'Albero, che si è svolta nel primo pomeriggio (15,30-17 h) nei giardini dell'Istituto di Lingue e Letterature Orientali, in via Principe Amedeo 184, a Roma.

Messa a dimora della pianta di Ficus religiosa (Massimo Livadiotti ed Enzo Barchi)Il peepal è l’albero che la nostra associazione ha donato perché fosse piantato simbolicamente nei giardini dell'Istituto. E’ una delle piante sacre dell'India, caro non solo all’Induismo ma anche al Buddismo. Nel panorama indiano appare spesso con la sua imponente caratteristica chioma capace di assicurare ombra a molte decine di persone, e il tronco profondamente solcato. Alcune feste e cerimonie si svolgono proprio sotto i rami di questo albero-simbolo (v. ultima foto).

Marialuisa Sales e Rosella Fanelli (Ist St Orient) M.B.Il peepal nella classificazione botanica è Ficus religiosa, una specie delle Moracee caratterizzata da foglie lanceolate che il popolo vede rassomiglianti a un cuore allungato che finisce a punta. La pianta messa a dimora è una pianticella giovane e alta, ben diversa dalle forme contorte e maestose che la specie può raggiungere a maturità nell'ambiente suo proprio. (Qui, in alto, è rappresentata una pianta di Ficus religiosa ottenuta in molti anni di cure assidue da virtuosi del bonsai che colpisce per la sua bellezza).

Nella cultura induista, giainista e buddista  peepal  è considerato "il re degli alberi". Albero donato e le danzatrici prima della messa a dimoraE' nominato come albero prediletto da Krshna nella Bhagavad Gita, ma è anche è il simbolo della Trimurti (le radici rappresentano Brahma, il tronco Vishnu, le foglie Shiva). Secondo il buddismo, proprio all'ombra di un peepal Buddha raggiunse l’illuminazione e il nirvana.
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E' credenza popolare in India che il peepal allevi sofferenze e curi malattie, e che coloro che annaffiano questa pianta avranno benefici per l'intera generazione. Marialuisa Sales davanti all'alberoOggi si apprende che la pianta è benefica anche secondo la scienza moderna: si è scoperto che le sue foglie producono grandi quantità di ossigeno e hanno azione battericida, e quindi questo Ficus è tra le piante che purificano l’aria da ospitare anche negli inquinati appartamenti cittadini.
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La cerimonia ha visto la presenza attiva nel rito (che competenza, anche in questo campo!) delle bravissime danzatrici Rosella Fanelli, fondatrice della Scuola di danza Kathak Italia, e Marialuisa Sales dell’associazione Orchestès (qui sopra accanto al giovane albero), alle quali vanno i nostri complimenti anche per l’esecuzione di danze indiane classiche magistralmente interpretate, con una partecipazione all’evento che va ben oltre la perfetta tecnica coreutica.

IMMAGINI. 1. Ecco come il peepal può diventare dopo anni di cure di appassionati dell’arte del bonsai. 2. Il momento della messa a dimora nel giardino situato nel cortile dell’Istituto: Massimo Livadiotti ed Enzo Barchi. 3. Il rito prima della messa a dimora del Ficus religiosa: le danzatrici Marialuisa Sales e Rosella Fanelli. 4. La danzatrice Rosella Fanelli. 5. All’ombra del maestoso peepal si usa in India darsi convegno per feste e riti di ogni tipo.

AGGIORNATO IL 30 OTTOBRE 2014

venerdì 2 marzo 2012

Gimnosofisti. Quei saggi o filosofi indiani, asceti e nudi, che zittirono il re Alessandro Magno.

Gimnosofista (disegno stampa) IL “VIAGGIO IN INDIA”? LO FACEVANO ANCHE 2300 ANNI FA. Ma è vero che nell’Antichità i giovani di buona famiglia romani e greci già “andavano in India”, con le medesime motivazioni e inquietudini, e spesso con gli stessi equivoci, di oggi?  E’ vero che, non solo sul piano commerciale, via Samarcanda, ma anche e soprattutto sul piano filosofico ed esistenziale, i punti di contatto tra India e Roma (e Atene) erano forse più numerosi dei contrasti?

E chi, che cosa, cercavano i giovani intellettuali in India? Cercavano le scuole dei gimnosofisti. Proprio come ai giorni nostri, i saggi indiani (ma allora erano veri e propri filosofi, non solo asceti) attiravano dall’Occidente greco-romano, per il mitico, già allora,“viaggio in India”, tanti giovani  intellettuali “alternativi” di quel tempo, che in mancanza di torpedoni gialli e crazy bus si accodavano alle carovane di retrovia che seguivano gli eserciti per poter viaggiare ben protetti, e che, se non lo erano già prima, tornavano vegetariani, cultori della filosofia indiana e magari “devoti nudisti”.

Ma chi erano questi gimnosofisti? Intanto vediamo chi erano, tra di loro, quei filosofi-asceti che rispondendo ad un indovinello-trabocchetto riuscirono ad azzittire il potente e colto Alessandro Magno e a fare proseliti perfino tra i suoi ufficiali. Per questo, occorre fare un piccolo passo indietro. Seguiamo la campagna militare del re Alessandro il Macedone in India, e fermiamoci nella città di Taxila dove incontra i filosofi locali che aveva fatto arrestare.

Naga indianoL’INDOVINELLO DELLA VITA E DELLA MORTE. “Se volete salva la vita – doveva aver detto il giovane re Alessandro – ditemi, o saggi indiani, e nel modo più arguto e curioso possibile, se sono più numerosi i vivi o i morti; se nutre animali più grossi la Terra o il mare; qual è l’animale più astuto; perché voi gimnosofisti avete incitato il re Sabba alla rivolta; se è venuto prima il giorno o la notte; in qual modo ci si può far amare in sommo grado; come un uomo può diventare Dio; se è più potente la vita o la  morte; fino a quando è bene che un uomo viva”.

Questo l’indovinello in nove domande – stando allo storico Plutarco – proposto dal giovane e arrogante condottiero (colto, però, e amante della filosofia) che stava invadendo l’India a dieci malcapitati filosofi. Insomma, o i saggi rispondevano (una domanda ciascuno) ai quesiti impossibili di Alessandro in modo brillante, tanto da stupirlo intellettualmente, oppure sarebbero morti.

La raffinata pena viene escogitata dal re Alessandro il Macedone [Alessandro Magno] proprio per punire dieci “gimnosofisti”, filosofi e asceti Hindi fatti prigionieri perché avevano istigato alla resistenza il re indiano Sabba e le popolazioni locali.  La regola del gioco intellettuale, però, è crudele: chi risponderà peggio morirà per primo, poi di seguito tutti gli altri. Ma chi deciderà sulle risposte? Il decimo gimnosofista, a cui il re macedone affida il compito più ingrato: fare da giudice, cioè dare un giudizio sulla bontà delle risposte dei nove compagni di sventura.

UNA BATTAGLIA TRA ASTUTI. Ascoltate le astute risposte dei nove colleghi (v. De Bernardi, nota 12), che s’inventa il decimo gimnosofista comandato “giudice”? Ricorrendo ad ogni artificio dialettico cerca di sventare la minaccia. Dice infatti: “Re, in verità ogni risposta è stata peggiore della precedente”. “Ma se è così – replica il non meno pronto Alessandro – l’ultimo,  quello del giudice, è il verdetto peggiore. E allora, sarai proprio tu, giudice, a dover morire per primo”. Ma il gimnosofista giudice non ci sta, e ricorrendo ad un trucco logico analogo al famoso “paradosso del mentitore” (v. qui sotto in nota*) argomenta più o meno così: “Non è possibile, o Re, perché – salvo che tu non fossi mentitore – avevi detto che sarebbe morto per primo chi avesse risposto peggio. Ma, come vedi, avendo risposto uno peggio dell’altro, nessuno di loro può essere indicato come primo”.

alessandro magnoSecondo altri, invece, il gimnosofista-giudice per salvarsi avrebbe risposto così: “Se il mio verdetto, o Re, è realmente pessimo, vorrà dire che ho ben giudicato, perciò non merito la morte. Se invece ho mal giudicato, il mio verdetto non è pessimo, e ugualmente non merito la morte”. In effetti, a pensarci bene, un verdetto “buono” o “cattivo” è quello che assolve o quello che condanna? In altre parole, sarà “buono” o “cattivo” a seconda che sia visto tale dall’imputato o dalla Legge. In questa incertezza semantica si era insinuata la furba risposta del filosofo gimnosofista.

E CON QUESTO TRUCCO EBBERO SALVA LA VITA. Alessandro, che fosse vera la prima o la seconda risposta, sarà stato certamente colpito dall’arguzia dei nove gimnosofisti e dall’accortezza del decimo. E non potendo decidere la prima delle dieci condanne, neanche le condanne successive poté ordinare. Così, non essendo in grado di far eseguire la condanna, lascia liberi i saggi gimnosofisti. Anzi, li rimanda da dove erano venuti carichi di doni, conclude P. Magnone nel saggio La risposta di un gimnosofista al quesito di Alessandro sull’origine del tempo: dottrina indiana?

MA L’OCCIDENTE AVEVA I SUOI GIMNOSOFISTI. Intanto, va premesso che già allora vigeva nel Mondo conosciuto un certo grado di “globalizzazione”, sia pure con tempi più lenti rispetto ad oggi. Come Romani e Greci avevano sentito dire dei saggi indiani, anche i gimnosofisti conoscevano – e lo dicono subito incontrando gli stranieri occidentali – i filosofi greci. E quindi sanno anche che l’Occidente ha i suoi asceti negatori della civiltà moderna e contestatori dei mores condivisi, insomma i suoi “gimnosofisti”.

L’UOMO DETTO “IL SOCRATE PAZZO”. Per esempio, Diogene di Sinope (412-323 a.C.), l’eccentrico asceta che in spregio delle comodità, del lusso, del rispetto umano, delle convenzioni dell’uomo “moderno” (già allora!) e perfino dell’igiene e della decenza, si vantava di poter vivere dentro una botte vuota, cioè il riparo più piccolo possibile, e senza alcun avere, cioè nudo, perché – diceva – l’uomo non ha bisogno d’altro. Fu soprannominato dai concittadini il “Socrate pazzo” e trattato più o meno come un barbone. Eppure, doveva essere un guru che aveva grande presa sui giovani “alternativi” e “anticonsumisti” dell’epoca, facilmente portati all’entusiasmo e molto influenzabili, come tutti i giovani di tutte le epoche. La sua filosofia era il cinismo (dal gr. κύων-κυνός = cane), così chiamata, non si sa se dagli avversari o dai discepoli, perché l’uomo in fondo, secondo il maestro, non aveva più esigenze di un cane, e poteva vivere proprio come un cane, in tutti i sensi, perfino facendo i suoi bisogni dappertutto, perfino sulle scalee d’un teatro, senza alcun riguardo alle ipocrisie e convenzioni (come la “educazione”) degli uomini. Insomma, ben altra pasta del ricco ed elegante guru arancione Osho Rajneesh!

IL COLTO ONESICRITO E I SUOI FIGLI. Un altro Diogene, lo storico Diogene Laerzio, nelle sue Vite dei filosofi, scrivendo dell’entusiasmo che il suo omonimo ma sporco filosofo sapeva creare attorno a sé, parla del curioso caso di Onesicrito di Egina, il quale mandò ad Atene un suo figlio che, preso dall'eloquenza di Diogene, non volle più allontanarsi da lui. Onesicrito mandò allora un altro figlio per convincere il fratello a tornare dal padre, ma anche questi volle rimanere. Onesicrito allora si recò personalmente ad Atene per vedere che cosa stava accadendo. E così conobbe Diogene, e ne fu così affascinato da diventare uno dei suoi discepoli più convinti e fedeli.

In realtà, gli Onesicrito dovevano essere due, ed entrambi allievi di Diogene, secondo il filosofo G. Reale. Infatti, un Onesicrito da Astipalea (375 ca.-300 a.C.), storico per la verità non sempre affidabile, consigliere e a suo dire timoniere della flotta di Alessandro Magno, ha lasciato scritto di avere accompagnato il re-condottiero in Asia. Tra la fine del marzo e il principio dell'aprile del 326 a.C., una volta giunti in India, Alessandro Magno, che conosceva l’adesione di Onesicrito al movimento di Diogene, lo inviò per competenza a un incontro con i filosofi indiani, detti dai Greci gimnosofisti [lat. Gymnosophistae, dal gr. Gumnosofisths, lett. "saggi" (sofisths) "nudi"(gumnoi)].

IL FAMOSO INCONTRO TRA GIMNOSOFISTI E MACEDONI. A due miglia dalla città di Tassila o Taxila (Taxila in greco, Taksasila in sanscrito), presso il fiume Indo, nel Gandhara, vicino all'attuale Rawalpindi, città in cui Alessandro poteva contare sull'amicizia del re locale, secondo gli storici Plutarco (Vite parallele: Alessandro) e Strabone (Commentari storici), Onesicrito si trovò davanti a una quindicina di uomini nudi, sdraiati per terra, tra cui un certo Calano (secondo fonti indiane potrebbe coincidere col noto saggio Kalyana) e un certo Mandanis (o Dandamis o Mandana), che quando apparve quel buffo visitatore straniero vestito di tutto punto, col caldo che faceva, indossando anche un cappello macedone, stivali al ginocchio e mantello, scoppiarono fragorosamente a ridere. Lo invitarono perciò a spogliarsi nudo, se voleva parlare con loro. Ma il calore del sole era tale che Onesicrito, nel timore di scottarsi, esitava a togliersi i vestiti.

Il saggio più anziano allora lo scusò, e cominciò a parlare dapprima lodando Alessandro, guerriero ma anche amante della cultura, e poi a chiedere notizie di  Socrate, Pitagora e Diogene [segno, quindi, che anche allora le idee circolavano rapidamente], uomini saggi e dabbene secondo lui, ma troppo aderenti alle convenzioni sociali [anche Diogene?] e poco attenti alla natura. Ecco, quindi, la prima differenza sostanziale: la Natura. Da questo colloquio, comunque, Onesicrito si convinse che i gimnosofisti erano molto vicini alla dottrina nota in Occidente come “cinismo”. I gimnosofisti, poi, arrivati a Tassila, pranzarono con Alessandro.

Da notare che l'incontro di Alessandro con i gimnosofisti – nota G.Giacometti – è successivo alla sconfitta del re indiano Poro (Paurava) sul fiume Idaspe (Vitasta) nell'attuale Pakistan. Secondo le fonti greche Alessandro, fino ad allora, non aveva esitato ad uccidere i filosofi indiani che, a differenza dei rispettivi sovrani, organizzavano la resistenza contro di lui [Plutarco, Vita di Alessandro]. Ma nella primavera del 326 l'incontro con i gimnosofisti fu pacifico. Esso avvenne, come già detto, nei pressi di Tassila. E ci sarebbero stati diversi scambi di battute tra Alessandro e due brahmana (bracmanes in greco), di cui uno – Calano, appunto – lascia le sue pratiche ascetiche per seguire il re macedone [Strabone, Geografia].

L’EROICA MORTE DI CALANO, IL GIMNOSOFISTA PIU’ FAMOSO. Tra di loro, il vecchio Calano, di 73 anni, spinto dal re di Tassila e  disobbedendo al maestro Mandanis, decise di unirsi alla spedizione di Alessandro per consigliarlo a non fare azioni militari avventate (Plutarco). Secondo Nearco, infatti, in India è costume che i saggi si occupino anche degli affari di stato e consiglino i re (Strabone). La sua, quindi, era una missione politico-diplomatica. Il che esclude che i gimnosofisti fossero tutti asceti lontani dal mondo e votati all’atarassia. Calano tenne durante il viaggio lezioni agli ufficiali macedoni interessati alla sua filosofia, tra cui Lisimaco. Ma a Pasargade (Persia) si ammalò per la prima volta nella sua vita, e temendo di non poter più assolvere ai suoi compiti di gimnosofista, decise di togliersi la vita, contro il consiglio dello stesso re Alessandro. Fattasi preparare una pira e fatto accendere il fuoco donò il cavallo a Lisimaco e gli altri suoi averi agli altri nuovi allievi della spedizione greca (Arriano), poi salì sul cumulo in fiamme e recitando inni agli Dei si fece bruciare vivo, senza un lamento, sotto gli occhi insieme terrorizzati e ammirati dei presenti. E mentre Calano bruciava – riferisce Nearco – le trombe suonarono, l’armata schierata dei Macedoni urlò il grido d’onore alalh, e gli elefanti, anch’essi schierati per ordine di Alessandro, barrirono.

LA “APATIA” COME INSENSIBILITA’ TRASCENDENTALE. Una morte epica che impressionò molto Pirrone e gli altri, e che fu poi tramandata nell’intero mondo greco-romano come simbolo di una απάθεια o insensibilità al dolore d’allora in poi attribuita tipicamente ai gimnosofisti (cfr. però l’ammirazione dei Romani per l’analogo gesto del quirite Muzio Cordo, detto Scevola, cioè il mancino, che senza un lamento si fece bruciare la mano destra, che aveva sbagliato nel colpire il re Porsenna) e che fu fatta propria anche dagli allievi europei dei saggi indiani, compresi Pirrone e Anassarco. Quest’ultimo, anni dopo, fatto torturare a morte dal tiranno Nicocreonte, professò anch’egli la sua απάθεια  proclamando che quello che stavano bastonando non era che il suo sacco, e che il vero Anassarco non era lì. Parole, concetti e insensibilità al dolore che gli venivano dai maestri gimnosofisti, soprattutto dal vecchio Calano (P. De Bernardi nel saggio “Pirrone e i maestri indiani”).

I GIMNOSOFISTI: LE DEFINIZIONI. Ma chi era un gimnosofista? Il nome greco è una evidente “allusione sia all’unione di sapienza e dottrina, sia all’esercizio di pratiche ascetiche che comportavano una nudità totale o parziale”. “Gli storici al seguito del re [Alessandro, in Asia] ne descrissero la vita in comunità appartate” [Enc. It. Treccani]. Seguiva, insomma, “forme di vita dedite ad ascetismo e filosofia”. E ancora: Secondo i filosofi greci e romani”, era un “asceta indiano che viveva nudo nei boschi” [A. Gabrielli, Gr. Diz. della lingua It.]. E secondo lo scrittore greco Arriano, più originale,  nonostante il loro conclamato estremo spiritualismo, erano sapienti  “che dimostravano la propria sapienza attraverso il corpo”.  Definizione, questa,  molto acuta, “naturistica”.

In Europa ne parla anche Giordano Bruno nell’introduzione del De Magia, laddove elenca i vari saggi o maghi nel mondo allora conosciuto: «Magus primo sumitur pro sapiente, cuiusmodi erant Trimegisti apud Aegyptios, Druidae apud Gallos, Gymnosophistae apud Indos, Cabalistae apud Hebraeos, Magi apud Persas (qui a Zoroastre), Sophi apud Graecos, Sapientes apud Latinos». I gimnosofisti erano considerati, insomma, dal religioso occultista Bruno, che riflette il pensiero dominante del Seicento, i più tipici saggi e maghi dell’India, l’equivalente dei filosofi in Grecia, dei druidi in Gallia, dei cabalisti in Israele, dei maghi in Persia, dei sapienti a Roma, dei trimegisti in Egitto.
Questi antichi filosofi Hindu perseguivano l’ascetismo al punto da considerare anche il cibo (cfr. Porfirio, De abstinentia et esu carnium) e i vestiti come elementi capaci di sporcare la purezza del pensiero. Dal fatto che spesso vivevano come eremiti nelle foreste, i Greci li chiamavano anche hylobioi (cfr. i Vāna-prasthās delle scritture in sanscrito). Diogene Laerzio riferisce di loro, e afferma che Pirrone di Elide, ritenuto fondatore del puro scetticismo, cadde sotto la loro influenza, e al suo ritorno a Elide si mise ad imitare i loro costumi di vita. Strabone divide i gimnosofisti in brahmani e sarmani (o shamani) [Enc. Britannica], e questi ultimi li divide ancora in aranyaka e "medici".

LA QUESTIONE DELLA CORPOREITA’ E DELLA NATURA. Perché i gimnosofisti, nella visione stereotipata e intellettualistica che ne ha dato l’Occidente prima tardo-pagano e poi cristiano, sembrano impersonare tra i saggi del Mondo quelli che più disprezzano il corpo e la Natura. E invece, paradossalmente, con questa curiosa insistenza a esporlo, a dipingerlo, a ornarlo di segni e colori rituali, a bagnarlo nelle acque del fiume sacro, proprio nel corpo, sia pure “purificato”, finiscono per annullarsi e identificarsi. E gli stessi gimnosofisti ne hanno consapevolezza, e lo fanno notare ai visitatori greci. La Natura manca, dicono, ai filosofi occidentali. Perciò “veri saggi”, perché in comunione con se stessi e l’ambiente, mentre i nostri filosofi e teologi disprezzando la Natura e cancellando il tramite con la Natura che è il corpo, mostrano di non capire né se stessi né l’ambiente: sono “saggi ignoranti”.

Ecco perché, in questo senso del recupero della corporeità e della nudità atavica, sia pure con modalità paradossali e allo scopo di esibire il disprezzo del superfluo e la povertà dei beni materiali, abbiamo citato e divulgato per la prima volta tra il largo pubblico, nel 1980, il fenomeno dei gimnosofisti, allora noto solo a pochi studiosi specializzati (N. Valerio, Guida al Nudo), sottolineando due fattori caratteristici della nudità degli Antichi: la estrema immagine della povertà, e il simbolo di una religiosità penitente e catartica (cfr. Francesco di Assisi che si spoglia dei ricchi abiti davanti a tutti, resta nudo, e cambia vita), che si ritrova non solo nei proverbiali modi di dire antichi europei, ma anche tra i pensatori (cfr. Montaigne: “Quanti devoti vanno nudi nelle strade in Asia!”).

LA NUDITA’ COME PREFERENZA DELLA NATURA PIUTTOSTO CHE DELLA LEGGE. E' vero che la nudità, così come la fermezza nell'ascetismo che tanto colpiva i macedoni si ritrovava – spiega G. Giacometti nel saggio Gli Studi giainici di L.P. Tessitori e il problema dei gimnosofisti – non solo presso i jaina, ma anche presso altre sette non bramaniche e gruppi interni all'ortodossia vedica, ma, ciò che non è stato sottolineato a sufficienza, essa sembra legarsi strettamente presso i gimnosofisti alla preferenza accordata alla FusiV, cioè alla Natura, rispetto al NomoV, alla Legge. E' per tale ragione che Mandanis, il più autorevole degli asceti, poteva riconoscere la somiglianza della propria sapienza con quella di Socrate, Diogene e Pitagora, ossia con quella espressa dalla tradizione naturalistica dei socratici, dei cinici e dei pitagorici. Ciò non impediva al saggio indiano di rimproverare loro, appunto, l'eccessivo ossequio al Nomos, difetto che egli riconosceva nella mancata adozione da parte del cinico Onesicrito della regola della nudità.

MA OGGI, IN INDIA, SOPRAVVIVONO I GIMNOSOFISTI? Curiosamente, i monaci jain Digambar in India, che ancora oggi rimangono nudi, sono stati identificati da secoli come i probabili eredi dei gimnosofisti da diversi autori. Il cinese Xuang Zang, per esempio, riferì di aver incontrato monaci jain Digambar a Taxila durante il suo viaggio in India nel VII secolo d.C. , proprio nella medesima regione del Punjab dove Alessandro aveva incontrato i gimnosofisti. Ma oggi, come luogo comune, qualunque devoto indiano appena acculturato indica negli asceti ed eremiti Sadhu e Naga Baba, nei saggi Rishi e negli Yogi, i se non i continuatori almeno gli analoghi moderni di quegli antichissimi saggi nudi. Ma i gimnosofisti, come concordano le fonti antiche, erano anche e soprattutto dei filosofi, degli intellettuali, talvolta addirittura dei consiglieri del principe, non o non solo degli eremiti, tantomeno dei reietti della società o dei “fachiri”, come pure si legge.

Insomma, i gimnosofisti erano agli occhi dei viaggiatori greci, e tali sono rimasti nei miti dell’Occidente, il non plus ultra insieme della saggezza e del buonsenso, oltreché dell’ascetismo Hindi. Dediti all’astinenza dalla carne e alla meditazione, consideravano il cibo e i vestiti come ostacoli alla purezza del pensiero, e in considerazione di ciò potrebbero avere degli eredi, sia pure molto parziali, negli attuali sadhu, naga, saggi rishi e yogi.  Anche se bisogna distinguere tra l’ascetismo e l’eremitaggio come rinuncia, l’apatia come trascendenza dei sensi, e l’intellettualismo filosofico del saggio che interviene nella società, addirittura assume incarichi di stato (cfr. la missione di Calano) e diventa perfino consigliere del principe.  Insomma, esistevano varie categorie di gimnosofisti. Una duplicità o ambiguità nota già a Strabone (v. oltre), che andrebbe chiarita e approfondita.

GLI ASCETI E GLI ATTIVISTI. Ma i gimnosofisti incontrati da Onesicrito erano o no brahmana, cioè devoti di Brahma in senso stretto? Forse no, a differenza dei primi due personaggi incontrati a Taksasila da Alessandro, indicati esplicitamente come bracmanes. Infatti – scrive Strabone – bisogna distinguere, parlando dei sapienti indiani tra attivi e contemplativi: «Nearco, a proposito dei sapienti indiani, dice che sono di due tipi. Gli uni fanno politica in quanto brahmana e si accompagnano ai re come consiglieri, gli altri osservano le cose della natura. Uno di costoro fu anche Calano. Facevano filosofia con loro anche le donne, e di tutti era propria una vita austera». “Coloro che, addirittura uomini e donne insieme (in una sorta di cenobio), osservavano la natura e, verosimilmente, ne seguivano l'esempio, piuttosto che seguire la via della legge, del costume e della politica, erano dunque – possiamo intendere – diversi dai brahmana”. Secondo Nearco, infatti, in India è d’uso che i saggi si occupino anche degli affari di stato e consiglino i re (riferisce lo storico Strabone).

INFLUENZA SU PITAGORA, GLI STOICI, GLI SCETTICI E I CINICI. I rapporti con la cultura filosofica occidentale sono quindi più stretti di quanto si possa immaginare. La cultura, le idee, hanno sempre valicato le frontiere. Tanto è vero che, nel famoso dialogo, lo stesso gimnosofista Calano, interrogato da Onesicrito sul suo ascetismo e le sue abitudini, risponde che anche il filosofo greco Pitagora prescrive pratiche analoghe, raccomandando anche di astenersi come cibo da esseri viventi. Come a dire:  non sei informato; siamo noi indiani, anzi, che ci meravigliamo della meraviglia di voi greci. Insomma, gli indiani accusano i greci di provincialismo. Con questo confermando anche una tesi degli studiosi, che cioè pitagorismo e brahmanesimo avessero ascendenze comuni. (C.Fucarino, Pitagora e il vegetarianismo).  Il che spiega la penetrazione della pratica vegetariana a Roma e ad Atene. Anche il già nominato giovane greco Pirrone di Elide, esponente della scuola scettica, al seguito di Alessandro in India per 10 anni, dal 334 al 323, ebbe secondo Diogene Laerzio contatti sicuri con gimnosofisti, brahmani e saggi indiani, e con maghi persiani, come riporta De Bernardi nel citato “Pirrone e i maestri indiani”): toiV gumnosofistaiV en India summixai kai toiV magoiV. oqen gennaiotata dokei filosofhsai. Nell’iconografia antica, fino al Seicento, esistono pitture su Pirrone, seminudo, che rifiuta i regali del re Alessandro, con l’austerità d’un gimnosofista d’Occidente.

Adamiti e Carpocratiani sterminati (piccola)I GIMNOSOFISTI SONO PIU’ RADICALI. Che i gimnosofisti indiani, nonostante la vicinanza di alcuni loro col Potere, fossero meno integrati, meno rispettosi dei gradi e delle convenzioni della società, insomma più radicali e fondamentalisti rispetto agli omologhi filosofi occidentali, è testimoniato anche dal seguente gustoso episodio. Riporta Arriano che quando la corte del re Alessandro, con Pirrone, Onesicrito e gli altri intellettuali greci, incontrarono i gimnosofisti, alcuni di loro erano stranamente intenti a calpestare in modo vistoso il terreno. Chiesti del perché, risposero: “O Re Alessandro, ogni uomo possiede tanta terra quanta quella che ognuno di noi calpesta, e tu, essendo un uomo come gli altri, faresti meglio a smorzare tanta frenesia che ti porta a vagare per queste vaste lande, lontano dalla tua casa, turbando te stesso e vessando gli altri. Insomma – conclude De Bernardi – i gimnosofisti, senza alcun timore reverenziale, redarguiscono l’arroganza del giovane condottiero macedone, secondo loro tipicamente “occidentale” (tutto è relativo), anziché adularlo e considerarlo, come egli avrebbe preteso, “figlio di Zeus”.

SAGGI E RELIGIOSI NUDI ANCHE IN EUROPA, MA SONO STERMINATI. Anche l’Europa cristiana ebbe i suoi “saggi nudi”: erano i devoti delle sette fondamentaliste ed eretiche degli adamiti (o adamiani) e carpocraziani. Gli adepti, grandi conoscitori delle Scritture, si riunivano tutti nudi, uomini e donne, per ristabilire la purezza e semplicità primigenia dell’Uomo, come Adamo ed Eva nel Paradiso terrestre. Si diffusero dal 130 d.C., sembra a partire da Alessandria d’Egitto, o secondo altri nel IV sec. dC. Loro esponenti furono Epifanio di Salamina, che fu anche vescovo, e un certo Prodico. Li si diceva discepoli di Platone, e certo credevano nella metempsicosi. Puntavano alla perfezione attraverso l’unione dei sessi in una sola persona. Li si accusava, perciò, di abbandonarsi ad ogni sorta di impudicizia, etero e omosessuale. Gli Adamiti, poi, avevano le donne in comune. Per questo, Sant’Eusebio li definì “maghi e fornicatori”. (J. Lignères, La sexualité dans la Magie, Paris 1928). Un loro consistente nucleo sopravvisse nel cuore dell’Europa, dove furono sterminati nel basso Medioevo (sec XV) nel corso delle ricorrenti persecuzioni della Chiesa contro gli eretici.
E I NUDISTI MODERNI, HANNO PUNTI IN COMUNE CON I GIMNOSOFISTI? Anche i nudisti di oggi, che per curioso pudore si autodefiniscono “naturisti” (senza accorgersi della contraddizione), possono essere collegati in qualche modo con i gimnosofisti? Forse sì, ma è un legame tenue, e solo se sono davvero naturisti, cioè immersi in una vita “secondo Natura” in tutti i suoi aspetti. Anch’essi, in fondo, almeno i pochi consapevoli e colti, potrebbero proporsi come “nudi e saggi”, in quanto portatori d’una visione intellettuale e anticonformistica del vivere e del pensare fondata sulla comunione tra corpo e Natura e sulla non-violenza (cfr. N. Valerio, Guida al nudo cit.). Certo, in tutt’altro panorama, cioè in ambiente culturale laico e occidentale,  imbevuto di edonismo e naturalismo estetico-estatico. Eppure, la stessa ricerca conclamata della semplicità, l’austerità di vita (questo era all’inizio del Novecento lo spirito del movimento), la riduzione dei consumi al minimo, la contiguità con la Natura, compreso il vivere il più possibile all’aria aperta tra i quattro elementi (aria, terra, acqua, sole), e infine la coincidenza in molti nudisti moderni tra filosofia del corpo, amore per la Natura, vegetarismo e una curiosa attenzione all’Oriente (cfr. ai primi del Novecento la famosa comunità internazionale della Casa Anatta sul Monte Verità, in Svizzera,  e tuttora lo yoga nudo), sono tipici elementi del più autentico Naturismo nudista originario, che a ben vedere possono essere visti come consistenti residui culturali della tradizione greco-indiana dei gimnosofisti, che ha sparso semi fecondi dappertutto, ed è così giunta fino a noi, in Oriente e in Occidente.
NICO VALERIO

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(*) Epimenide di Creta (VI secolo a.C.), cretese, sosteneva che «i Cretesi sono bugiardi». Era dunque vera o falsa questa affermazione, sapendo che chi l’aveva detta era cretese? Essendo egli, in quanto cretese, bugiardo, la frase non era vera. E se invece Epimenide fosse stato anche l’unico cretese non bugiardo? Anche in questo caso la frase sarebbe stata falsa, poiché dimostra che non tutti i cretesi sono bugiardi.

IMMAGINI. 1. Gimnosofista (disegno). 2. Naga indiano col corpo cosparso di cenere e terra del Gange che si inebria al fumo di droghe. 3. Alessandro il Macedone. 4. Devoti sadhu in processione. 5. Lo sterminio degli adamiti in Europa nel XV secolo (stampa medievale).

AGGIORNAMENTO. Il saggio in forma più completa e aggiornata, con l’aggiunta di una ricchissima e unica bibliografia originale greca e latina, è leggibile qui.

sabato 15 ottobre 2011

Jyotish Sashtra: serata dedicata all’arte dell’Astrologia Vedica applicata alla psicologia

astrologia-vedica Una serata eccezionale, dedicata all’introduzione all’Astrologia Vedica, la più affascinante delle discipline esoteriche provenienti dall’antica scienza dei Veda, che spiega la nostra vita e riguarda il nostro carattere e la nostra personalità.

Sabato 29 Ottobre 2011, dalle ore 19,00 fino 23,00

Tra i vari argomenti: le influenze della luna sulla mente; gli elementi o archetipi primordiali e la loro condotta; le cause dei diversi problemi dell’infanzia; i disordine della coscienza; l’analogia tra l’eclissi e la follia; i condizionamenti e i traumi”

Docente: Ramanuja Das tel. 320.9106157
www.astrohindu.com

E’ possibile anche cenare nell’attiguo ristorantino ayurvedico indiano.

Informazioni, Prenotazioni e luogo dell’evento: Bibliothè, via Celsa, Roma (piazza del Gesù), tel: 06.6781427

mercoledì 5 ottobre 2011

Massaggio ayurvedico del Kerala su viso, testa e collo: corso teorico e pratico in 10 lezioni

Massaggio-Testa IN CHE COSA CONSISTE. Il massaggio ayurvedico del viso, della testa e del collo  (Mukhabhyangam e Shiroabhyangam) è l’ideale per la bellezza e il relax: energizza, allevia alcuni disturbi delle vie aeree superiori, elimina lo stress, migliora la vista, contribuisce a ridurre le rughe,  migliora la bellezza e la salute dei capelli, in alcuni casi previene mal di testa e mal d'orecchi.

Un corso pratico e teorico di facile apprendimento, per imparare a rilassare, a offrire benessere e a massaggiare in modo rapido ed efficace.

A ogni incontro una breve introduzione filosofica, cenni di anatomia e fisiologia, precederanno l'acquisizione di varie tecniche di massaggio, alla schiena, al collo e al viso da mettere subito in pratica.

Il metodo indiano prevede l’utilizzo di diversi tipi di oli ed estratti di piante, secondo la persona e la tipologia della pelle.

Il massaggio del Kerala viene creato su misura per l’individuo, secondo l’antica tradizione Ayurvedica.

QUANTE LEZIONI, QUANDO E DOVE. Numero lezioni: 10 da 1 ora e 30' circa ciascuna. A partire dal 7 ottobre 2011 c/o Bibliothè, via Celsa 5, Roma. Giorno:  venerdì. Orario: 19-20.30. Costo iscrizione e frequenza: euro 185.

CHI CONDUCE IL CORSO. Sono Marilena Capuzzimati, yoga master, operatrice in massaggio e tecniche ayurvediche, da diversi anni forma insegnanti di yoga e operatori in massaggio ayurvedico. Insegno presso la scuola Asia Darshana di Roma, della quale è direttore didattico e presso l’I.S.U. di Roma. Svolgo attività di ricercatrice e divulgatrice del benessere olistico collaborando con diversi enti pubblici e privati. Partecipo agli obiettivi di sviluppo economico e sociale dell'Onu. per il settore salute. Seguo il corso di laurea in lingue e civiltà orientali presso l'Università La Sapienza di Roma. Ho pubblicato presso le edizioni ISU due dvd (con manuale allegato): “Videocorso di yoga del respiro”, e “Videocorso di yoga per la colonna vertebrale”.

Per ulteriori informazioni, iscrizioni, e per ricevere il programma dettagliato scrivere alla email asiadarshana@gmail.com oppure telefonare al 320 3285749.
MARILENA CAPUZZIMATI

sabato 1 ottobre 2011

Gandhi ai vegetariani: praticare davvero la non-violenza, la coerenza morale e la tolleranza

mahatma_gandhi GIORNATA DEI VEGETARIANI E DELLA NON-VIOLENZA. ANNIVERSARIO DI GANDHI. Il 2 ottobre è la Giornata della Non-violenza, perché è la data di nascita di Mohandas K. Gandhi. Nato il 2 ottobre 1869 a Porbandar (Gujarat, India dell’ovest), morì a Nuova Delhi il 30 gennaio 1948, a 79 anni, per mano di un fanatico indu. Già quando era in vita, il nome di Gandhi era preceduto dall’appellativo di venerazione Mahatma (“grande anima”, in sanscrito), su suggerimento del poeta Rabindranath Tagore e del filosofo mistico Shri Aurobindo. In India la sua data di nascita è tuttora giorno festivo.

E’ stato una singolare, unica, figura di politico: tenace difensore di oppressi e discriminati, sindacalista, filosofo morale, e guida spirituale dell’India. Teorico della disobbedienza civile e della non-violenza (ahimsa, in sanscrito), vegetariano, fautore di una vita semplice al limite dell’ascetismo, con poche cose personali, poco cibo, e un vestito essenziale che fu la sua divisa, il dhoti, corta tunica fatta di khadi, rozzo tessuto a mano di cotone o lana che egli stesso tesseva all’arcolaio portatile o chakra, che poi divenne per suo volere il simbolo dell’indipendenza economica indiana, tant’è vero che è stato inserito nella bandiera.

Non solo in India, dove è il Padre della Patria, essendo stato l’ispiratore e il regista delle lotte per l’indipendenza del Paese dal Regno Unito, ma ormai ovunque nel Mondo, Gandhi è considerato uno dei più grandi uomini dell’epoca moderna. Eppure nel 1931, quando venne in visita a Roma, fu ricevuto, sì, dal furbo Mussolini (entrambi nemici dell’Inghilterra), ma non dal papa Pio XI, “perchè – scriveva in un rapporto segreto la polizia – [Gandhi] non ha voluto assoggettarsi ad un vestimento più decente". Cinismo tipico dei riccamente abbigliati uomini di Chiesa.

All’Italia era legato in via indiretta, perché profondamente influenzato dalla figura e dal pensiero di Mazzini, di cui teneva sempre in vista un ritratto, come ebbe a sottolineare lo storico e politico G. Spadolini in un discorso tenuto all’Università di Calcutta (25 gennaio 1994), poi apparso in parte sul Messaggero (25 febbraio 1994). Però, le agitazioni promosse da Mazzini – aggiungiamo noi – tutto erano fuorché non-violente.

Come vegetariano Gandhi fa parte della bella lista dei grandi uomini vegetariani, alcuni dei quali suoi contemporanei, come Lev Tolstoi, G.B.Shaw, e negli ultimi anni della loro vita anche Albert Einstein e Albert Schweitzer. «Le generazioni a venire crederanno a fatica che un individuo in carne e ossa come questo ha camminato su questa terra», disse di lui con ammirazione lo scienziato Einstein.

Ed è paradossale che il giovane Gandhi provenendo dall’India, allora molto più di oggi vegetariana, avesse ripreso l’interrotta tradizione vegetariana di famiglia solo dopo essersi stabilito a Londra per studiare da avvocato (1886). Merito – racconta lui stesso nella autobiografia La mia vita per la libertà – dei ristoranti vegetariani che già alla fine dell‘800 esistevano nella capitale inglese. Divenne, così, socio della Vegetarian Society.

Come teorico della azione diretta e della disobbedienza civile con metodi duri ma rigorosamente non-violenti e non cruenti, ebbe grande influenza sui movimenti di liberazione e sulle più diverse minoranze emarginate. Dopo la sua scomparsa, dagli anni 50 in poi, si ispirarono al suo metodo molti difensori dei diritti civili provenienti dalle più diverse ideologie, tra i quali, in ordine cronologico, Aldo Capitini, Martin Luther King, Marco Pannella, Nelson Mandela,  Aung San Suu Kyi.

TUTTI VEGETARIANI? MAGARI!... Il 3 ottobre, il giorno successivo all’anniversario gandhiano – bella coincidenza – si celebra la Giornata Mondiale del Vegetarismo. I vegetariani, sia moderati (lacto-vegetarian o lacto-ovo-vegetarian, per i quali ora abbiamo creato il primo blog 
di supporto scientifico e pratico), sia radicali, cioè vegan (solo cereali, legumi, verdure, frutta e semi oleosi), stanno aumentando ovunque, anche in Italia.

Una circostanza assolutamente positiva, anche se riteniamo molto sovrastimati i dati diffusi dalle indagini demoscopiche. Nella Penisola saremmo 5 milioni su 60 milioni? “Ma dai…”, direbbe ridendo qualche ragazza veg che sa bene quanta fatica richiede ogni volta trovare altri veg con cui organizzare una gita, una vacanza, perfino una cena… Un dato che stride con la nostra esperienza quotidiana: perfino coloro che possono vantarsi di “conoscere tutti” negli ambienti un tempo noti come “alternativi” o tra i frequentatori dell’alimentazione naturale, ebbene, perfino loro, si lamentano perché in realtà conoscono pochissimi vegetariani. Addirittura, non è vegetariana, è stato constatato – e questo è davvero il colmo – buona parte dei frequentatori delle conferenze delle associazioni vegetariane! Il Mahatma si rivolta nella tomba.

E allora, la gente non dice la verità quando è intervistata? Molto probabilmente. Per motivi psicologici che stanno dietro il meccanismo stesso dell’inchiesta demoscopica. Esiste, infatti, una diffusa tendenza potenziale, specialmente tra i giovani e le donne, al cibo non-violento, quello cioè che non richiede l’uccisione degli animali. Quando ad un giovane già sensibilizzato o animalista o spiritualista l’intervistatore chiede se è vegetariano o se almeno lo sta diventando, o se ama e rispetta gli animali, o se è utente o vorrebbe diventare utente di negozi “bio”, ecco che il giovane è portato a rispondere in buona fede di sì. Perché in effetti apprezza questi valori. E’ un desiderio il suo, anzi un proponimento, più che una realtà. Una decisione che ha appena preso… proprio durante l’intervista, ma che non essendo ben meditata dura poco.

Inoltre esistono motivi commerciali che spingono a ideare questionari capaci di dare cifre elevate. Le rilevazioni sociologiche sono quasi sempre pensate su commissione di aziende o settori produttivi. Ed è noto che esiste un lucroso business attorno al pubblico vegetariano e “bio”, spesso molto consumista (altro che Gandhi e il suo arcolaio per filare!) e poco critico verso le vanterie della pubblicità. Un mercato, perciò, che fa gola alle ditte produttrici che si sono gettate a capofitto sull’alimentazione alternativa, alla faccia del Mahatma e della sua purezza anti-consumistica.

COERENZA MORALE E TOLLERANZA. Insomma, che i vegetariani italiani siano 5 milioni o solo – più probabilmente – 500 mila, troviamo davvero poco “gandhiani” e poco coerenti moralmente, per stare al messaggio di Gandhi, non solo tutte le falsità, esagerazioni e mistificazioni sul vegetarismo, ma anche i tanti vegan e vegetariani aggressivi ed estremisti, come quelli che nei cortei (p.es. al Veggie Pride che si svolse a Roma) urlano “morte ai macellai”, oppure quelli che “odiano” gli esseri umani “perché mangiano carne”, quelli che diffamano i vegetariani non “abbastanza” vegetariani, quelli che vorrebbero costringere gli altri alla dieta “perfetta”. Il Mahatma ha sempre raccomandato, invece, di non seminare odio, neanche attraverso il perfezionismo. E infatti era il primo a confessare i suoi difetti, anche in tema di dieta.

Insomma, la non-violenza e la benevolenza non si mostrano soltanto a tavola, come purtroppo crede la maggioranza dei vegetariani, ma a qualunque ora, ogni giorno, in tutta la vita, e verso tutti gli esseri. Solo a quel punto la scelta vegetariana è un gesto coerente e nobile. Coerenza morale e tolleranza: questo il senso del messaggio di Gandhi ai vegetariani. Chi mostra sensibilità e amore verso gli animali, deve fare lo stesso con gli uomini. E trattar bene gli animali non ci assolve certo dal “peccato” dell’aggressività, cioè del trattar male gli uomini e le donne con cui condividiamo questo Mondo. Ebbene, quanti sono i vegetariani che pensano e agiscono così? Pochissimi.

Per tanti motivi, insomma, l’anniversario di Gandhi e la Giornata mondiale vegetariana sono una coincidenza che va sottolineata. Per ricordare i due eventi, riportiamo di seguito il discorso sull’etica del vegetarismo tenuto da Gandhi alla Società vegetariana di Londra il 20 novembre 1931.
NICO VALERIO 


gandh conferenza London Veg Soc1931LA CONFERENZA DI GANDHI. «Sig. Presidente, colleghi vegetariani e amici, non c'è bisogno che vi dica il piacere che ho provato quando ho ricevuto l'invito a questo convegno, perché mi ha rinfrescato vecchie memorie e ricordi di belle amicizie formate con vegetariani. Sono particolarmente onorato di trovare alla mia destra il sig. Henry Salt. Proprio il libro di Salt La giustificazione del vegetarismo mi ha dimostrato perché, a parte un'abitudine ereditaria e il rispetto per un voto che mi fu imposto da mia madre, era giusto essere vegetariano. E' stato lui a dimostrarmi perché è dovere morale dei vegetariani  non vivere a spese dei nostri amici animali. E' quindi un piacere ulteriore per me trovare il sig. Salt in mezzo a noi.

Non voglio rubarvi troppo tempo con le mie varie esperienze di vegetarismo e nemmeno intendo raccontarvi le grandi difficoltà con cui mi sono confrontato nella stessa Londra per rimanere fedele al vegetarismo, ma vorrei condividere con voi alcune riflessioni che ho maturato sul vegetarismo. Quarant'anni fa avevo l'abitudine di fare amicizia facilmente con altri vegetariani. A quell'epoca non c’era quasi nessun ristorante vegetariano a Londra che io non avessi visitato. Mi ero infatti prefissato di visitarli tutti, sia per curiosità che per studiare le possibilità del vegetarismo. Naturalmente, ero venuto in stretto contatto con molte persone vegetariane. Mi resi conto che a tavola le conversazioni spesso riguardavano il cibo e le malattie, e che i vegetariani che si sforzavano di rimanere saldi nel loro vegetarismo lo trovavano difficile dal punto di vista della salute.

Non so se ancora oggi abbiate di queste discussioni, ma all'epoca io partecipavo a discussioni tra vegetariani e anche tra vegetariani e non-vegetariani. Mi ricordo una di queste discussioni, tra il dott. Densmore e il defunto dott. T. R. Allinson. Allora i vegetariani avevano l'abitudine di non parlare di altro se non di cibo e malattie, ma io credo che questo sia il modo peggiore di occuparsi della questione, e mi rendo conto anche che proprio coloro che diventano vegetariani perché sono affetti da questa o da quella malattia - ossia, solamente per una motivazione salutistica - poi in buona parte tornano indietro. Mi sono reso conto che per rimanere fedeli al vegetarismo è necessaria una base morale.

Quella per me fu una grande scoperta nella mia ricerca della verità. Già in giovane età, nel corso delle mie sperimentazioni, mi resi conto che una base egoistica non sarebbe servita allo scopo di elevare l'uomo sempre più in alto lungo i percorsi evolutivi. Ciò che serviva era uno scopo altruistico. Mi resi anche conto che la salute non era affatto monopolio dei vegetariani. Trovai molte persone che non avevano pregiudizi in un senso o nell'altro e trovai che in genere i non-vegetariani potevano godere di buona salute. Mi resi anche conto che per parecchi vegetariani era impossibile rimanere tali perché avevano fatto del cibo un feticcio, e perché pensavano che diventando vegetariani avrebbero potuto mangiare lenticchie, fagioli e formaggio a sazietà. Ovviamente per queste persone non era possibile conservare una buona salute.

Meditando su questi temi, arrivai alla conclusione che un uomo dovrebbe mangiare con frugalità e ogni tanto digiunare. In effetti nessun uomo o donna mangiava davvero con moderazione o consumava solo la quantità di cibo richiesta dal corpo. Siamo facili prede delle tentazioni del palato, e quindi quando qualcosa ha un gusto delizioso non ci preoccupiamo di prendere un boccone o due in più. Ma non ci si può mantenere in salute in queste condizioni. Pertanto mi resi conto che per mantenersi sani, non importa quanto si mangi, è necessario ridurre la quantità di cibo e il numero dei pasti, diventare moderati, sbagliare in difetto piuttosto che in eccesso. Quando invito degli amici a condividere il cibo con me non li forzo mai a prendere nulla se non quello che desiderano. Al contrario, dico loro di non prendere una cosa se non la vogliono.

Ciò che desidero farvi notare è che i vegetariani devono essere tolleranti se vogliono portare gli altri al vegetarismo. Adottiamo un po' di umiltà. Noi dovremmo fare appello al senso morale delle persone che non hanno le nostre stesse idee. Se un vegetariano si ammalasse, e un dottore gli prescrivesse brodo di manzo, allora io non lo chiamerei vegetariano. I vegetariani sono fatti di materiale più robusto. Perché? Perché il vegetarismo riguarda la costruzione dello spirito, non del corpo. L'uomo è qualcosa di più che carne. E' la spiritualità dell'uomo ciò di cui ci occupiamo. Perciò la base morale dei vegetariani dovrebbe essere la consapevolezza che gli uomini non sono nati carnivori ma per vivere della frutta e delle piante che crescono sulla terra. So che tutti facciamo degli errori. Io rinuncerei al latte se potessi, ma non ci riesco. Ho provato moltissime volte, ma non riuscirei a recuperare le forze dopo una malattia seria senza tornare al latte. Questa è stata la tragedia della mia vita. Ma la base del mio vegetarismo non è fisica, bensì morale. Se qualcuno mi dicesse che morirei se non prendessi del brodo di manzo o di montone, anche su prescrizione medica, io preferirei la morte. Questa è la base del mio vegetarismo.

Ah, come sarebbe bello pensare che tutti noi che ci definiamo vegetariani avessimo questo fondamento! Ci sono stati migliaia di carnivori che non sono rimasti tali. Ci deve essere un preciso motivo per fare quel cambiamento nelle nostre vite, per adottare usi e costumi diversi da quelli prevalenti nella nostra società, anche se a volte quel cambiamento può urtare le persone a noi più vicine e più care. Per nulla al mondo bisognerebbe sacrificare un principio morale. Pertanto il solo fondamento per avere una società vegetariana e per proclamare un principio vegetariano è, e deve essere, di tipo morale. Io che vado in giro per il mondo non sono qui per dirvi che in genere i vegetariani godono di una salute molto migliore rispetto ai carnivori. Appartengo ad un paese che è prevalentemente vegetariano per abitudine o per necessità, pertanto non posso testimoniare che questo mostri una resistenza, un coraggio o un'esenzione dalle malattie molto maggiori, perché è una cosa specifica, personale. Richiede obbedienza, scrupolosa obbedienza, a tutte le leggi dell'igiene.

Insomma, quello che i vegetariani dovrebbero fare non è sottolineare solo le conseguenze fisiche del vegetarismo, ma ricercare le sue conseguenze morali. Anche se non abbiamo ancora dimenticato che abbiamo molte cose in comune con gli animali, non ci rendiamo conto abbastanza che ci sono molte cose che ci differenziano da essi. Ovviamente, esempi di vegetarismo nella mucca e nel bue – che sono vegetariani più perfetti di noi – ma c'è qualcosa di più elevato che ci chiama al vegetarismo. Perciò ho pensato che, nel tempo in cui ho il privilegio di parlarvi, vorrei semplicemente sottolineare il fondamento morale del vegetarismo. E vorrei dire che ho appreso dalla mia stessa esperienza, e dall'esperienza di migliaia di amici e compagni, che loro sono appagati, per quanto riguarda il vegetarismo, dal fondamento morale con cui sostengono la loro scelta.

Per concludere, ringrazio tutti voi per essere venuti e per avermi permesso di incontrarvi di persona. Non posso dire che fossi abituato a vedervi quaranta o quarantadue anni fa. Immagino che i volti della Società Vegetariana di Londra siano cambiati, sono pochissimi i membri che, come il sig. Salt*, possono vantare una partecipazione alla Società che supera i quarant'anni».
M.K. GANDHI

IMMAGINI. 1. Gandhi in una caricatura anonima. 2. Gandhi durante la stessa conferenza del 1931 presso la London Vegetarian Society di cui tratta il presente articolo. Alla sua destra il vecchio esponente vegetariano H.S. Salt. (fonte: sito italiano di International Vegetarian Union, a cui si deve anche, in parte, la traduzione).

*Henry S. Salt, a cui accenna Gandhi, oggi quasi dimenticato (ma qualche suo libro è ancora ristampato nei Paesi anglosassoni), era stato dirigente dell’Università di Eaton dal 1875 al 1884 e segretario onorario della Lega Umanitaria dal 1891 al 1919. Vegetariano per oltre 50 anni, aveva circa 80 anni al momento del discorso di Gandhi. Riteneva la società umana ancora terribilmente violenta e primitiva, come mostra il polemico titolo d’un suo libro scritto a settant’anni: “Settant'anni tra i selvaggi”.